“E’ raro, ma quando succede niente può contenere l’eccitazione della lettura. Giovane o meno giovane, lettore esigente o meno, uomo o donna, leggerai fino all’ultima riga il romanzo di Joel Dicker. Ne uscirai entusiasta per il gioco continuo di adrenalina letteraria che il narratore, senza sosta, ha iniettato nelle tue vene.”

Marc Fumaroli, Le Figaro.

“Il vero colpo di scena di questo libro pieno di colpi di scena è che è un posto in cui si sta bene. Sebbene si girino le pagine molto velocemente non si ha nessuna voglia di finirlo.”

Sandro Veronesi.

“La verità sul caso Harry Quebert è un capolavoro assoluto (non segue dibattito).”

Antonio D’Orrico, Corriere della Sera

“Dicker usa il noir per ristabilire la centralità del letterario. Con questo giovane svizzero dovremo tutti fare i conti, prima o poi.”

Giancarlo De Cataldo, la Repubblica.

Per chi non lo sapesse, le citazioni sopra riportate sono riferite a un romanzo che ha avuto un notevole successo negli anni recenti: La verità sul caso Harry Quebert. Sono le stesse citazioni che, almeno nell’edizione che ho letto io, sono riportate in quarta di copertina. Ho sentito parlare molto di questo romanzo, prima di decidermi a leggerlo. E devo dire la verità: non mi ha mai attratto la sua trama. Questione di gusti puramente soggettivi, naturalmente. Niente di che.

Tuttavia la molla mi è scattata quando ho letto sui social alcune recensioni e un paio di video da parte di editor di professione che ne elogiavano apertamente le tecniche narrative.
E allora, cinicamente, mi sono fatto coraggio e mi sono deciso a leggerlo.

Perché “cinicamente” ?

Per due motivi, sostanzialmente.
Il primo: come già detto, la trama non rientrava esattamente nelle mie corde.
Il secondo: ero davvero curioso di scoprire queste tecniche narrative elogiate dai suddetti editor.
Ma non per studiarle e, chissà, imparare qualcosa di nuovo e di curioso (per inciso: avrei apprezzato, se solo le avessi trovate).

Per “studiare” i suddetti editor che seguo: perché se mai dovessi arrivare un giorno a rivolgermi a uno di loro, vorrei essere sicuro che sappia fare bene il suo mestiere. E il modo migliore per capirlo è leggere un romanzo da lui/lei elogiato, meglio ancora da lui/lei editato, perché se tale romanzo per me (soggettivamente parlando) è mediocre e scadente, allora molto probabilmente anche l’editor in questione sarà (soggettivamente parlando) “incompetente”.

La mia non-recensione

A questo punto dovrei dire la mia ed esporre il luuungo elenco di anelli deboli della luuunga catena del luuungo intreccio. Servirebbe quindi un luuungo post, ma non mi dilungherò: mi limiterò all’essenziale.

E per farlo, oltre a condensare il mio pensiero nel titolo stesso del post (trama debole, passaggi troppo artificiosi, forzati, poco credibili), userò 2 immagini.

Questa è dunque la (non) recensione di Darius Tred: due immagini, senza troppi giri di parole. Sono riferite a due serie televisive molto famose e, credo, conosciute dai lettori “meno giovani”, per usare le stesse parole di Marc Fumaroli: La signora in giallo e I misteri di Twin Peaks.

Niente da aggiungere

Per chi ha amato lo stile, le atmosfere, le ambientazioni, il “pathos” (chiamatelo come preferite) di queste due serie tv, allora probabilmente amerà anche il romanzo di Joel. Lo stesso discorso vale per chi, guardando queste stesse serie tv, ha stropicciato il naso per tutti i “trité” in cui si è imbattuto (trité = cliché trito e ritrito).

A proposito di trame deboli

Di trame deboli ne ho sempre trovate parecchie. Sarà perché sono pignolo, sarà perché sono esigente. Tuttavia a tutto c’è un limite. E questo limite Joel l’ha superato abbondantemente, come Mary prima di lui. Ma Mary aveva molte attenuanti: eravamo in un’altra epoca.

Quello che mi lascia perplesso in casi come quello di Joel, come detto all’inizio, non è tanto il fatto che la trama in questione sia debole, quanto l’assenza critica dell’editor coinvolto e degli editor che ne hanno elogiato le tecniche narrative.

Possibile che nessuno abbia ravvisato tutti i difetti che ho trovato io? Possibile? Comincio a pensare di aver sbagliato mestiere. Non è che dovrei fare l’editor anziché lo scribacchino?

Vabbè, stavo scherzando.

21 commenti su “La trama debole di Joel

  1. Sì Darius. Rilanci una questione a me molto cara: si può valutare obiettivamente un romanzo (ergo, un’opera d’arte propriamente detta) ? . Non vorrei tuttavia, con la mia domanda, sollecitare le solite tiritere sul de gustibus e sulla presunta impossibilità di valutare la qualità oggettiva di un lavoro puramente creativo; vorrei invece provare a porre un serio dubbio sul potere di quelle strutture di controllo del mercato (sull’editoria e sulla comunicazione in genere, come giornalismo televisivo e digitale, divulgazione scientifica, etc.) che hanno tutto l’interesse che il fruitore/lettore comune di un’opera letteraria o artistica, non disponga di elementi di giudizio condivisi, e che , in sostanza, non maturi delle capacità critiche che gli permettano, se non di distinguere nettamente la qualità, perlomeno di scartare una gran parte di prodotti </strong) imposti in sordina dal mercato editoriale.
    Il problema così concepito, inteso cioè nel senso della
    selezione dal basso( e perciò del saper distinguere almeno il cd ‘brutto’ ) lo pose – ad esempio – Gillo Dorfles, risolvendolo brillantemente, peraltro.

    – Un punto centrale della riflessione potrebbe essere questo: laddove non vi sono criteri condivisi, vince sempre il criterio del più forte.

    In definitiva, caro Darius, hai ben motivo di storcere il naso verso i giudizi (opportunistici) di un certo tipo di critica

    1. Andando con ordine, direi che sì, si può valutare obiettivamente un romanzo, ma resto sempre convinto che la migliore valutazione la si riesce a fare quando non si conosce l’autore. In altre parole, molti fanno valutazioni seguendo più o meno inconsciamente la massa. E non mi stupirei se tra gli autori nelle citazioni che ho riportato ci fosse qualcuno che non ha nemmeno letto il romanzo per intero.

      Lo stesso discorso varrebbe per gli editor: si tende a non mettere in discussione un testo editato da un editor “famoso”. Ma se, a fronte di un testo, un lettore si trovasse di fronte a due editing anonimi, non sono così sicuro che “vinca” sempre l’editing dell’editor “famoso”.

      Quanto alle strutture di controllo del mercato editoriale, non avrei molto da aggiungere. Sono meccanismi sempre oscuri e alquanto fallaci: basta vedere cosa succede quando spunta un “game changer” come Erin Doom, che raggiunge tranquillamente il successo eludendo tutti quei meccanismi che molti reputano sacri e indiscutibili.

          1. Ricordo Amanda Hocking. Avevo letto un articolo anni fa, probabilmente lo stesso a cui fai riferimento tu. Concordo che per i self è difficile arrivare a un certo tipo di successo, tuttavia a volte succede: ricordo ad esempio Andy Weir, autore del libro autopubblicato (sempre negli States) The Martian, da cui hanno poi tratto un film di grande successo.

          1. Ho letto l’analisi: bisognerebbe studiarci un po’ sopra.
            MI son soffermato soprattutto sull’operazione di pubblicazione del ‘cartaceo’ , il vero affare di cui parlo anche io, nei link inserito di sopra. Ai miei calcoli sarebbero bastate meno di 50.000 copie per cucirci sopra un affare di tutto rispetto a rischio zero. Il resto è grasso che cola…altro che ‘sotto le aspettative’
            Quel che sembra, in tutta evidenza, è che il mondo digital-social lavori oramai in sinergia con le grandi imprese del libro. Continuo a ribadire l’urgenza di qualcuno che si faccia carico della questione dei parametri. Non so se si trova in rete, (eventualmente ce l’ho in archivio), tempo fa un tal Luca Pareschi si era soffermato sulla questione dei canoni di qualità, con un’indagine molto seria basata su interviste ai grandi editori. Un lavoro per l’Univerità , mi sembra di ricordare. Le conclusioni erano sconcertanti.

  2. Sopravvalutatissimo Dicker. Ho letto solo questo che citi, trama debolissima, colpevole indovinato subito, e non ho più avuto voglia di leggere altro di suo. L’editoria è questa roba qui, in cui alla fine c’entra anche il carisma del bel ragazzotto che piace e la sua platea è spesso femminile.

    1. Concordo: sopravvalutato alla grande. Non posso dire di aver indovinato subito il colpevole, ma diciamo che a metà storia mi sono fatto un’idea molto precisa. Alla fine, il colpo di scena non c’è stato perché se il lettore comincia anche solo a ipotizzare come siano andate le cose, poco importa che ci azzecchi in pieno o meno: il solo fatto di esserci andato molto vicino, basta a togliere l’effetto “wow”.

      Soprattutto mi hanno “aiutato” il pieno carico di cliché: ma un editor non dovrebbe assicurarsi che non ci siano? O almeno che non si esageri?

      Il cliché della madre americana frustata (sullo stile di “Desperate Housewife”, altra serie americana che deve aver ispirato un sacco l’immaginario di Dicker…) qui è ripreso e ripetuto su ben 3 personaggi.

      Il cliché dello scrittore frustato dal blocco dello scrittore?

      Il cliché della polizia zen?

      Il cliché che porta tutti a confessare l’inconfessabile? Alla fine tutti confessano la propria parte…

      Mah, non so che dire…

  3. Ammetto che volevo comprare il libro all’epoca, ma le ottocento pagine mi dissuasero all’istante. Ho visto però la serie tv, e non mi sono mai pentito del mancato acquisto. Sui gialli sono pignolissimo anche io, e sopporto a malapena le continue rivelazioni spesso piazzate solo per farti fare “oohh!”. Qualcuna va bene ma poi si rischia di stancare il lettore che non voglia per forza abdicare completamente alla sospensione dell’incredulità. Come ad esempio nel teoricamente ottimo Cambiare l’acqua ai fiori di Valerie Perrin che finisce però col volere troppo. Ricordo con orrore l’assurdo Uomini che odiano le donne, un libro dove il nipotino scemo di Colombo avrebbe risolto tutto in venti pagine. Ma ormai il livello del mondo giallo e thriller funziona così, un incremento pazzesco di produzione, film, serie tv tutte a livelli davvero minimali. In Tv consiglio le serie Criminal, uno plot innovativo basato su esclusivi confronti in una stanza degli inerrogatori. Niente sparatorie, sangue inseguimenti.. solo confronto detective/sospettato. Davvero un livello di indagine superiore.
    Dicker se lo sogna.

    1. Allora ti posso confermare che non ti sei perso nulla.

      In merito ai colpi di scena, oltre ad essere un tantino troppi (gusto personale) tendono a concentrarsi tutti alla fine della trama. Potrebbe essere naturale, si direbbe, ma è come se, nonostante le 800 pagine, l’autore a un certo punto avesse avuto fretta di concludere. E alla fine, il lettore non fa in tempo a “interiorizzare” un colpo di scena, che subito gliene viene servito un altro… e poi quasi tutto su confessioni spontanee. Alla fine confessano tutti, come dicevo a Sandra…

      (Ho intravisto Criminal in tv e anche a me è piaciuto, anche se non ho ancora avuto il tempo di godermelo a pieno…)

  4. Non è un genere che prediligo dunque non ho mai avuto voglia di imbattermi in questa lettura così strombazzata, ma di critiche negative ne ho lette tante. Mi stupiscono i giudizi sperticati letti all’inizio: spesso non capisco come si possano scrivere libri poi tanto criticati (in negativo) e avere tanto successo. Sono i misteri dell’editoria. E comunque sì, anch’io credo che tu saresti potuto essere un buon editor: raramente trovo “occhi” così attenti e spirito così acuto. Facci un pensierino! 😉

    1. I giudizi sperticati all’inizio (che poi sappiamo che fanno sempre parte di un certo tipo di marketing…) ho pensato che fossero di gente che non ha letto bene il romanzo, o l’ha letto di fretta, o l’ha letto una pagina sì e tre no, oppure non l’ha letto proprio…

      Non riuscirei a darmi altra spiegazione di così tanta generosità a fronte di così tanto evidente mediocrità…

      Dico così perché poi, quando un romanzo diventa un “must” del momento, tutti i “critici” del mestiere vogliono dare l’impressione di averlo letto per non essere da meno e quindi, colti magari da un’intervista improvvisa o dalla richiesta di un commento da pubblicare subito il giorno dopo sulla tal testata, ecco che preferiscono dare il giudizio sperticato sull’onda del successo percepito dalla platea, piuttosto che passare per quelli che non l’hanno ancora letto.

      Ti ringrazio per il tuo eufemismo! “Occhi attenti e spirito acuto” è un modo elegante per dire “spaccamaroni” … 😀 😀 😀
      (Sto scherzando, naturalmente: grazie davvero).

      No: non penso di fare l’editor. Al massimo posso aspirare a fare il lettore-beta.
      Anche perché, se avessi fatto l’editor, credo che metà dei libri che ho in casa li dovrei buttare (miei compresi, riletti con il senno di poi…).

  5. @ Franco, il mio punto di riflessione è il seguente: cosa ti ha spinto a ‘voler comprare’ quel mattone di ottocento pagine?
    E poi, non ti sembra un limite promuovere lavori così ridondanti? Non è che a monte si scandagliano e selezionano soprattutto quelle opere convertibili in sceenggiature per serie tv? Le dimensioni avrebbero dunque un peso nel criterio di scelta qualitativa?
    Non è forse una gabbia alla libertà di espressione autoriale?
    Anche Nel mondo dell’arte, infatti, si cercano autori e artisti che producono tanto, la qualità poi viene decisa nella stanza dei bottoni. Un modo per creare ricchezza dal nulla (e non ci metto le virgolette, stavolta)

  6. La signora in giallo? Ho è Happy Days quello? C’è pure Sottiletta! XD
    Beh, La signora in giallo non l’ho visto, lo davano sempre ad orari impervi per me. Ho visto Twin Peaks e probabilmente ero troppo giovane per capirlo. Avevo anche letto (cocciuta come il mio solito) pure Il diario di Laura Palmer, per cercare di capirci qualcosa… niente. Ha solo aggiunto più confusione. Più o meno come la serie Lost, che ho guardato a tratti (saltando qualche episodio mi pareva di capirci di più), ma alla fine mi ha lasciato la sensazione che manco gli sceneggiatori sapessero come chiudere il tutto.
    Non ho letto La verità sul caso Harry Quebert, ho visto la serie tv (e solo perché c’era il dottor Stranamore di Grey’s Anatomy, Patrick Dempsey, ovviamente) e non mi pareva malaccio. Sembrava mancare qualcosina ed ero tentata di leggere il romanzo, per altro è disponibile in una delle casette di libri del bookcrossing di quartiere, l’ho visto. Ma ho detto “ero” perché dopo la tua non-recensione penso proprio di lasciarlo dentro la casetta, al calduccio… 😀

    1. Quindi ti ho fatto risparmiare la lettura di 800 pagine. Quasi quasi te lo spedisco a casa in una busta colore verde-multa. Così lo metti in una di quelle casette per gli scoiattoli del bookcrossing.
      Così la gente, trovandone più copie, comincia a farsi qualche domanda, anche se ormai possiamo dire che sia un romanzo un po’ datato.

  7. Tornando al tuo quesito iniziale, Darius, siccome affermi che un libro si può valutare obiettivamente, potresti indicarmi uno o due parametri assolutamente non-interpretabili e dunque non negoziabili come tali?. Partendo, ovviamente, da qualità grammaticale e correttezza delle eventuali citazioni o tesi scientifiche proposte dall’autore, nel senso che non si può più parlare di schemi e idee valide cent’anni fa e oggi fuori corso. E quindi, per il resto?

    1. Più che di parametri, io parlerei di onestà intellettuale.
      Quindi penso che si possa valutare obiettivamente un’opera semplicemente applicando una buona dose di onestà intellettuale soprattutto con sé stessi e poi, naturalmente, con i propri interlocutori.

      Poi si possono anche fare valutazioni sbagliate, ma un conto è sbagliarle in buona fede, un altro è sbagliarle perché si segue la massa e il trend del momento.

      Il giudizio resta più spontaneo quando non ci sono di mezzo nomi di un certo calibro, che intimano inconsciamente una sorta di timore reverenziale a prescindere.

      Anni fa ho partecipato a questo curioso esperimento: una blogger aveva preso un brano scritto da Carver, lo stesso brano editato da Lish, il suo editor “ufficiale” e lo stesso brano editato da un editor anonimo. Con un curioso (diabolico) dettaglio: le 3 versioni dello stesso brano erano state mostrate ai commentatori senza specificare l’autore, cioè senza dire quale versione fosse quella ufficiale di Carver, quale quella editata da Lish e quale quella editata dall’editor anonimo. L’esperimento? I commentatori dovevano semplicemente dire quale versione fosse la migliore, secondo il proprio personale giudizio.

      Ebbene, i lettori hanno preferito l’originale di Carver, reputandola come la versione meglio riuscita. Ma la cosa ancora più curiosa è che, dei due editing proposti, quello “bocciato” cioè reputato peggiore è stato proprio quello ufficiale di Lish.

      (Se ti interessa approfondire questo esperimento, lo trovi qui: https://trentunodicembre.blogspot.com/2017/02/3-versioni-2-editor-1-brano-rewind.html )

      E’ passato qualche anno e ora posso dirlo: l’editor anonimo ero io.
      Dunque, che conclusioni dovremmo trarre? Che Darius Tred è un buon editor, almeno di livello pari a Lish? No. Certo che no: Darius Tred non è nemmeno un editor.

      Che gli editor non servono a nulla? Ni. Io credo che ci siano autori che abbiano un bisogno deciso di editing (ma dell’editor giusto); e autori a cui bastano un paio di lettori-beta molto attenti e scrupolosi.

      Nel caso di Joel Dicker sono mancati sia gli uni che gli altri, tanto che gli strafalcioni sono stati notati da una vasta platea di lettori. (Qui trovi un altro post più autorevole del mio: https://scriverevivere.it/2015/04/disimparare-scrivere-da-harry-quebert/)

      Ma nonostante tutto, come abbiamo visto, per qualche misterioso meccanismo (che forse tu conosci molto meglio di me), questo romanzo non solo ha avuto un certo successo, ma ne hanno tratto persino una serie tv.

      Mi viene da pensare che persino gli sceneggiatori non abbiano avuto quel minimo di onestà intellettuale di cui sopra: e quindi hanno seguito il trend del momento. Il romanzo è di successo? Allora lo sarà anche la serie. Chi se ne frega della trama debole e raffazzonata. Chi se ne frega dei cliché triti e ritriti.

  8. L’interessante esperimento che mi hai suggerito di leggere, svela alcune incongruenze di sistema, non si addentra però nel merito della questione dei parametri (Lo so, lo so. E’ una brutta parola) . Il mio intento, forse velleitario, vorrebbe essere invece quello di superare il cd schema del ‘consenso’ , anche se da quello dipende poi l’agognato successo di un autore. Più che di successo, tuttavia, mi piacerebbe parlare di qualità, e le due cose non sempre coincidono. A mio avviso, messa da parte l’onestà intellettuale, bisogna tirarsi fuori dalla pericolosa logica dell’approvazione facile , che poi non è altro che un tele-voto letterario e innalza la quantità a valore riconosciuto; il sistema di valutazione che intendo io, invece, vorrebbe indicare un procedimento selettivo che parta dal basso, nel senso che due capolavori, o perfino due ottimi testi (così come due o più opere d’arte) non possono essere sottoposti a graduatoria e fin qui siamo tutti d’accordo. Che significa allora ‘dal basso’? Significa che, l’eventuale introduzione di parametri potrebbe casomai permettere una significativa scrematura rispetto a tutto ciò che non può proprio essere confuso con un lavoro di qualità. Non si tratta allora di definire un campione, un’eccellenza, ma di provare a indicare chiaramente ciò che ‘capolavoro’ non è né mai potrà essere, partendo dal presupposto che il talento artistico è un bene pregiato e che quindi non si trovi agli angoli delle strade. Il problema è dunque quello di riuscire a estrarlo da una vena coperta da montagne e montagne di materiale inerte, che poi sarebbe quello prodotto in quantità oceaniche dal popolo degli aspiranti scrittori. Il concetto si rifà alla parodia del minatore di cui scrivo qualcosetta qui: https://arteeordineanarchico.blogspot.com/2023/06/banale-inconcludente-consueto.html

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