Scrivevo tempo fa del tragico fascino delle lettere, soprattutto delle lettere perdute e ritrovate. E’ incredibile come le loro parole vengano trasformate dal limbo che le conserva: quelle stesse parole, a volte innocue, a volte vuote e dedicate alla semplice cronaca degli eventi, vengono inghiottite dalle sabbie mobili degli imprevisti per poi riemergere dopo anni o decenni immutate ma completamente trasformate nel loro significato.

Una lettera mai spedita, insomma, conserva sempre quell’aura di mistero ancora da scoprire. A volte è il solo fatto di poter ficcare il naso in qualcosa di non destinato a noi che moltiplica la nostra curiosità, la nostra voglia di leggere. Del resto, io stesso mi sono cimentato con un romanzetto dove le lettere (perdute e ritrovate) hanno un ruolo di rilievo e dove appunto i personaggi si muovono mossi dal voler sapere di più in merito agli eventi in esse accennati.

Ma torniamo noi. Dopo la lettera del soldato inglese, un mesetto fa mi sono imbattuto in questa lettera perduta di Plinio il Vecchio, grazie a una delle tante newsletter a cui sono iscritto. Se devo essere sincero, non sono del tutto convinto che sia autentica, benché tradotta. Le mie scarse limitate capacità d’indagine storica mi hanno portato a scoprire lettere di Plinio il Giovane, ma non di Plinio il Vecchio, così indicato appunto per distinguerlo dal nipote.
Sono propenso quindi a pensare che in realtà tale lettera sia una finzione narrativa, come indicato dallo stesso incipit riportato tra parentesi. Anche perché, e qui pongo una domanda semiseria, se è una “lettera perduta” come è possibile che sia giunta fino a noi?

Se davvero si tratta di finzione narrativa, concediamoci allora cinque minuti di quella sospensione dell’incredulità che ogni tanto è necessaria per godere di una buona lettura. Perché, a mio modo di vedere, quel tragico fascino di cui dicevo all’inizio è intatto e ci porta indietro nel tempo di parecchi secoli, fino al 79 d.C., nel giorno di una delle eruzioni vulcaniche più famose dell’antichità, proprio alle pendici del vulcano stesso. Ci riporta sotto il Vesuvio, nel pieno della sua potente e tremenda eruzione.

[Lettera perduta di Plinio il Vecchio a suo nipote Plinio il Giovane durante l’eruzione del Vesuvio, nel 79 d.C. Testo: Àlex Sala]
Durante l’eruzione del Vesuvio, lo scrittore e naturalista Plinio il Vecchio era comandante della flotta imperiale ormeggiata a Miseno, a nord del golfo di Napoli, e organizzò una spedizione per studiare da vicino il fenomeno e salvare gli abitanti in fuga.

Caro nipote,

ieri partivo dal porto di Miseno e oggi ti scrivo da Stabia, all’altro lato del golfo, dove, temo, trascorrerò le ultime ore della mia vita, intrappolato nell’inferno che si è scatenato alle pendici del Vesuvio.

Spero che questa missiva (se un giorno arriverà tra le tue mani) possa testimoniare il potere distruttivo delle forze della natura, e possa forse completare la mia Naturalis historia, che non vedrò mai pubblicata nell’edizione definitiva. Ti raccomando di occupartene.

Comincio il mio racconto con la descrizione dei fatti avvenuti ieri a mezzogiorno, che tu ben conosci, avendoli vissuti accanto a me.

Era stata per entrambi una mattinata di studio proficua, interrotta di quando in quando da una frenesia inusuale da parte degli animali, da lievi tremori del terreno e da lontani ruggiti che parevano provenire dalle viscere della terra, tanto frequenti in questa regione che non ci facemmo caso. Probabilmente annunciavano il disastro incombente.

Ma procediamo con ordine. Dopo un pranzo leggere, qualche minuto al sole e un bagno in acqua fredda, stavamo per tornare ai nostri libri quando, poco prima dell’ora ottava [verso l’una di pomeriggio], udimmo una grande esplosione in lontananza e tua madre c’indicò l’affascinante e misteriosa nube che si estendeva a sud di Miseno: una mole grigiastra costituita da una tronco allargato che s’innalzava fino al cielo per dieci o dodici miglia [tra i quindici e i venti chilometri], sormontato da un’immensa chioma rotonda che gli dava la forma di un gigantesco pino.

Quasi allo stesso tempo arrivava il messaggio di Rectina, la moglie di Basso, turbata dalla catastrofe che incombeva su Ercolano: la terra non smetteva di tremare, statue e pareti crollavano e l’aria era irrespirabile. Mi spiegava che non c’era via di fuga se non per mare e mi supplicava con veemenza di accorrere in suo aiuto. Intrigato dai prodigi naturali che avevo visto coi miei stessi occhi e di cui mi si diceva, decisi di armare una flotta e partire per studiare il fenomeno più da vicino e per assistere per quanto possibile la nostra cara amica nella fuga.

Appena i venti furono favorevoli partii. Le correnti facevano avanzare rapidamente le nostre navi e spingevano la mostruosa nube nella stessa direzione. Fu allora che cominciò a cadere su di noi una finissima pioggia di pietra pomice e ceneri incandescenti, precipitata dal cumulo nerastro che oscurava sempre più il cielo man mano che ci avvicinavamo alla costa.

I terremoti si succedevano sempre più frequenti e le scosse arrivavano fino al mare in tempesta. L’aria era sempre più calda e fetida, segno di un’alta concentrazione di gas nocivi, e rendeva difficile respirare, soprattutto a una persona come me, affetta da problemi respiratori.

Ormai vicini a Ercolano, sulla costa potemmo distinguere un gruppo di sventurati che gridavano e facevano segno che li andassimo a salvare. I più avevano lasciato dietro di sé ogni cosa per cercare di salvare almeno la vita. Alcuni avevano soltanto un sacchetto di monete, altri un baule con gli oggetti più preziosi: stoviglie d’argento, gioielli o semplicemente ricordi dei loro cari. Che cos’era tanto importante per ciascuno di loro da portarlo con sé a costo della vita?

Non so se Rectina era tra loro, ma non aveva importanza, perché era impossibile salvarli. La pioggia piroclastica era sempre più forte e faceva ribollire l’acqua del mare, e i terremoti avevano modificato a tal punto la costa che sbarcare era impossibile.

La cenere e la ghiaia espulse dal vulcano, sempre più spesse e calde, cominciavano a ricoprire la barca. I marinai, terrorizzati, mi supplicarono di abbandonare questa missione suicida. «La fortuna aiuta gli audaci», risposi, e li convinsi a fare rotta verso sud, a Stabia, dove pensai che forse avrei potuto aiutare il mio buon amico Pomponiano e la sua famiglia.

Dovemmo gettare l’ancora perché i forti venti spingevano pericolosamente la nave verso la costa. Sbarcammo a Stabia, da dove potemmo contemplare il terrificante spettacolo di fuoco in atto sulla cima del Vesuvio, ma da una distanza sufficiente per sentirci un po’ più sicuri.

Appena giunti a terra andai a calmare Pomponiano, che era già pronto per partire, e lo convinsi a cambiare idea. Decidemmo di fare un bagno, cenare e recuperare le forze, sperando che la mattina dopo i venti fossero più favorevoli.

Durante la notte, tutto parve fermarsi. La pioggia piroclastica che ci aveva intossicato tutto il giorno cessò, e andammo a letto confidando in un miglioramento che ci permettesse di partire la mattina seguente.

All’alba, gli schiavi mi hanno svegliato allarmati perché la pioggia di roccia e cenere è ricominciata. Si sentono storie terribili. Di notte la montagna ha smesso di sostenere la nube di fuoco sulla vetta e tutto il materiale è ricaduto sul pendio, raggiungendo Ercolano e Pompei.

Raccontano che immense ondate di polvere e cenere sospese nell’aria incandescente si sono addensate a gran velocità sopra le due città e che migliaia di persone sono morte di colpo carbonizzate, come se le avessero rinchiuse in un forno. I testimoni parlano di corpi pietrificati nel loro ultimo gesto, con le mani davanti al volto, come a volersi proteggere dal flagello.

Terrorizzati all’idea che queste ondate mortali arrivino a Stabia o che l’accumularsi della cenere abbatta la nostra casa, i miei compagni mi hanno chiesto cosa fare. Abbiamo convenuto di scendere alla spiaggia e di stare pronti per salpare.

Stamattina il vento e le correnti vanno verso la costa e la navigazione è impossibile. La temperatura dell’aria continua a salire e respirare è sempre più difficile: dalla bocca mi escono solo ansimi e rantoli. Ho i polmoni in fiamme, e mi sembra di sentire una piccola parte del dolore sofferto dagli infelici di Pompei ed Ercolano. A tratti è parso che il mondo stesse per finire, ma ora credo che tutto passerà. E quando le tenebre si dissolveranno e il fumo e la nube di calore asfissiante si dissolveranno, in cielo tornerà la luce del sole e splenderà il giorno. Ma credo che per me sarà troppo tardi.

Tratto dalla Newsletter settimanale della rivista Storica National Geographic, di sabato 19 febbraio 2022.

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