Quante volte è capitato? Andare al cinema e vedere un film così bello e coinvolgente che si vorrebbe non finisse mai. Oppure, perlomeno, ne avremmo molto gradito una mezz’ora in più, magari pure un’ora. Giusto il tempo di vedere ulteriori sviluppi delle vicende narrate, il perché, il “percome”. Lieto fine, ok. Ma poi come si sarà sviluppata la tal vicenda? Davvero non è successo più nulla? E quel personaggio? Cosa avrà voluto dire con quella frase a metà film? A cosa si riferiva esattamente?
Certo, molti film – o meglio: molte storie – sono costruiti appositamente con i finali aperti per lasciare spazio a possibili seguiti. Hanno sì un senso compiuto ma una porticina la lasciano sempre aperta. Chissà che l’autore non ci ripensi, chissà che il regista – o il produttore, o lo sceneggiatore – non estraggano prima o poi un altro coniglio dal cilindro. Spesso accade così. Ma spesso non accade. Il lettore – lo spettatore – viene lasciato in balia della sua fantasia, abbandonato a immaginare scene o addirittura finali alternativi che si spingono molto oltre la parola “fine”, il tutto sull’onda dell’entusiasmo. E sì, perché quella storia ci è rimasta proprio nel cuore, ci è piaciuta molto, ci ha coinvolto.
Ma torniamo al film: parlavamo di un film bellissimo. Tutti noi ne abbiamo uno, forse anche più di uno. Forse non abbiamo esitato a comprarne il dvd appena uscito. E quante volte sarà capitato di optare per il dvd doppio, completo di contenuti speciali, scene tagliate, finali alternativi, interviste agli attori. E che dire delle versioni dei registi, le cosiddette “director’s cut”, o “extended edition” ?
Questo fenomeno, inteso come voglia quasi morbosa di scovare tutto ciò che si trova oltre il narrato, di scoprire tutto quello che non è stato raccontato, si verifica anche nella lettura quando, anziché un film, la storia che ci ha inchiodato con il fiato sospeso è racchiusa tra le pagine di un romanzo.
Scrivi, scrivi, scrivi. Taglia, taglia, taglia…
…l’ho letto tempo fa in un blog che seguo segretamente 😀 .
Ma l’idea di fondo la si trova in molti altri blog e siti che parlano di scrittura: scrivere e tagliare sono considerate due fasi obbligate nel processo di creazione di una storia.
Il processo creativo (scrivere) e il processo distruttivo (tagliare).
Ma davvero è così necessario distruggere? Un conto è togliere qualche frase qua e là, aggiustare un dialogo rivedendo qualche battuta (questo processo io lo chiamo “adattare”, “perfezionare”). Un altro conto è tagliare drasticamente interi paragrafi, scene, capitoli e passare da cinquantamila battute a ventimila, da cinquecento pagine a trecento. Questo vuol dire “riscrivere da capo”, “ristrutturare”, “reingegnerizzare la storia”. Se succede questo, vuol dire che la storia non aveva ancora finito di sbocciare nella nostra testa, vuol dire che ci siamo seduti a scrivere prima ancora di avere le idee chiare.
Altre volte però, se siamo sufficientemente padroni di un certo metodo, ci si siede a scrivere al momento giusto. E la storia esce quasi perfetta così com’è, pronta per essere riletta e certamente adattata – anche più volte -, ma non drasticamente tagliata.
Supponiamo quindi di aver scritto una storia molto bella, davvero avvincente. Purtroppo però la dobbiamo tagliare per farla andare bene al concorso di turno, se non addirittura all’editore che dimostra un certo interesse. Chi scrive sa bene che a volte le storie scappano di mano e nascono lunghe così. Al netto delle ripetizioni, delle frasi troppo articolate, delle scene troppo prolisse, dei particolari inutili, dei dialoghi troppo allungati (tutte cose che, concordo, vanno adeguatamente limitate e anche eliminate), al netto di tutto ciò, dicevo, talvolta le storie rimangono comunque troppo lunghe.
Ma troppo lunghe per chi?
Le esigenze del concorso
Chi gestisce concorsi letterari per ovvie ragioni impone quasi sempre un limite sulle battute. È comprensibile dal punto di vista della giuria: perché tutti i concorsi hanno una scadenza ed entro la tal data è necessario leggere tutto. È un po’ meno accettabile dal punto di vista del lettore perché, finito il concorso (non necessariamente vinto), la nostra storia – avvincente sì ma non quanto lo era prima del drastico taglio pre-concorso – magari l’avrebbe apprezzata di più nella sua versione originale.
Le esigenze della pubblicazione
La pubblicazione cartacea ha sempre un costo. Non importa che si pubblichi con una casa editrice o con una piattaforma di self-publishing: un libro di cinquecento pagine costerà sempre di più di un libro di trecento pagine, che costerà di più di uno di duecento. Più carta, più inchiostro, più peso da spedire se comprato on-line. Ok, dopo aver tagliato magari riusciremo anche a pubblicare. Ma a quale prezzo?
È già un traguardo grandioso stare sugli scaffali delle librerie, ma magari il nostro romanzo ci resta solo quel paio di mesetti, il tempo di venire rimpiazzato da altri titoli che la stessa casa editrice – che impone tagli ragionando soprattutto sui costi di “produzione” dell’oggetto-libro – ha individuato nel frattempo. Magari la versione originale del nostro romanzo avrebbe riscosso più successo.
E le esigenze del lettore?
Chi gestisce un concorso o chi gestisce una casa editrice è quasi sempre pronto a dire che “bisogna tagliare”. Ma cosa dovrebbe stare più a cuore a uno scrittore? (Oltre alla storia, s’intende…).
Ah-a: prima di rispondere, rileggere quanto scritto all’inizio 😀 .
Soprattutto: prima di rispondere, ripensare a tutte quelle belle storie che abbiamo letto e di cui avremmo letto volentieri un centinaio di pagine in più, se non addirittura un seguito. Ripensare a tutti quei racconti e quei romanzi che, per necessità altrui, sono stati tagliati e torturati per arrivare in libreria.
Il senso della sintesi è una gran cosa, ma se dovessi essere obbligato a scegliere tra il dono della sintesi e il dono dell’efficacia, sinceramente sceglierei quest’ultimo. Il non voler tagliare un proprio testo non significa non volersi mettere alla prova. Non significa rifiutarsi di sottostare a un regolamento. E non sempre significa essere presuntuosi e dire “è perfetto così”.
Rifiutarsi di tagliare significa anche accollarsi la responsabilità di sostenere che una storia funziona così e che, se eccessivamente ridotta, non funzionerebbe affatto. Ne avevo parlato tempo fa, in seguito a un contest organizzato dal sito Webnauta.
E più ci ripenso (è passato oltre un anno), più mi convinco dei miei pensieri.
A ognuno il suo (ruolo). Da partecipante a un corso rispetti le regole, da editor faiquellochedevimagarifattobeneeh, da scrittore scrivi, da CE pubblichi… per il self stesso discorso con ovvie sfumature diverse. Le storie scritte bene non lasciano mai l’amaro in bocca, che siano autoconclusive o a finale aperto; in entrambi i casi saprò – da lettore – che non poteva essere diversamente, che va bene così. E si passa a un’altra storia.
Il punto è che una storia potrebbe essere scritta talmente bene che come lettore rimani con l’entusiasmo a mille. E sapere che la stessa storia magari è stata tagliata, quello sì che ti lascerebbe con l’amaro in bocca… 😀
“Dopotutto è difficile riassumere le complicazioni di una vita in uno spazio breve, se si spera di comporre un resoconto accurato.” (Jamie Fraser in Il cerchio di pietre, Diana Gabaldon) Ne avevo parlato su quel post del pregiudizio del lettore (libro troppo lungo, libro noioso).
Insomma, anche per i libri c’è chi ritiene che le dimensioni contano, e chi invece pensa sia più una questione di qualità ed utilizzo (delle parole)… 😀
Mi illudo di pensare che la tua amica Gabaldon potrebbe essere d’accordo con il mio pensiero. Su dimensioni, qualità e utilizzo (delle parole)… 😀 😀 😀
Rifiutarsi di tagliare significa anche accollarsi la responsabilità di sostenere che una storia funziona così e che, se eccessivamente ridotta, non funzionerebbe affatto.
Ben detto e ho rifiutato due pubblicazioni per questo motivo, e l’ho spuntata perché il libro è poi uscito come dicevo io!
Mi fa molto piacere. Tu sei la prova vivente e scrivente di questi miei pensieri. 🙂