Ho avuto il piacere, e la scomodità, di leggere questo romanzo: La profezia perduta di Giordano Bruno.
Il piacere, e la scomodità, di apprezzare la profondità di alcuni personaggi che sono stati descritti con “apparente” potenza.

Le virgolette su “apparente” non sono dovute al dubbio che pongo sull’operato e sulla preparazione degli autori, ma sono dovute più che altro alla mia attuale incapacità di dare la giusta misura a ciò che è vero e a ciò che è invece romanzato. Insomma: in altre parole, mi è difficile cogliere la linea di demarcazione, questa volta davvero sottile, che separa la finzione dalla realtà. Per coglierla procederò a tempo debito con le mie indagini personali, attività che amo fare dopo aver terminato la lettura, quando il tempo me lo consente.

Tuttavia posso già buttare lì un paio di riflessioni, perché, come dicevo, il lettore che è in me ha avuto “il piacere di leggere”, mentre il presunto scrittore che sarebbe in me ha avuto “la scomodità di leggere”.

La potenza dei nomi

Cominciamo a fare quattro nomi: Roberto Bellarmino, Giulio Santorio, Ippolito Aldobrandini.
E, visto il titolo del romanzo, Giordano Bruno, naturalmente.

Già qui si nota un dettaglio divertente: i primi tre probabilmente sono sconosciuti ai più (compreso il sottoscritto prima della lettura), mentre l’ultimo dovrebbe essere più noto.
Quando si dice la potenza dei nomi…
Aumentiamo la potenza dei nomi per capire di chi stiamo parlando, anche se penso che il risultato resterà sostanzialmente invariato: il cardinale (Roberto) Bellarmino, il cardinale (Giulio) Santorio, Papa Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini).
E Giordano Bruno.

Cambia qualcosa? No. A parte per Giordano Bruno, il cui nome probabilmente continua a essere il più noto dei quattro.
Per capire il motivo per cui trovo estremamente divertente questa cosa, bisognerebbe leggere il romanzo: i primi tre personaggi sono stati, storicamente parlando, molto influenti e potenti all’epoca e, sempre storicamente parlando, si sono adoperati in prima persona per estirpare, schiacciare, cancellare, annullare, far sparire dalla faccia della Terra il malcapitato Giordano Bruno che era un normalissimo frate, benché molto erudito. Destinato ad un (presunto) rogo. Eppure, nonostante tutto, Giordano Bruno ne è uscito vincitore a tutti gli effetti e sotto ogni punto di vista: lui (e le sue idee) hanno beneficiato dell’onore della memoria storica nei secoli a seguire fino ad oggi, mentre gli altri tre sono pressoché caduti nell’oblio, ricordati solamente da un circolo ristretto di studiosi. Alla faccia del (presunto) rogo.

Insisto col dire “presunto” rogo perché anche qui ci sono autorevoli fonti storiche secondo le quali Giordano Bruno non sia affatto perito nel famoso rogo di Piazza Campo dei Fiori. Non mancherò di andare a fondo in merito a questa teoria che trovo quantomeno curiosa. Ma non divaghiamo.

La potenza della scrittura

Devo rendere onore agli autori in quanto, al di là dell’intreccio, hanno dato grande profondità e spessore alla psicologia dei quattro personaggi in questione dando spesso voce ai pensieri, alle emozioni e ai conflitti interiori. Ne è venuto fuori un ritratto molto dettagliato, così dettagliato che al lettore è sembrato quasi di muoversi accanto a loro, tanto si poteva sentire i loro sentimenti.

Ma il punto è proprio questo: fino a che punto un autore può permettersi di mettere in testa certi pensieri ai suoi personaggi?

La questione è spinosa, anche se a prima vista può sembrare un’inezia.
Ed è spinosa perché un conto è mettere in testa i pensieri a un personaggio di fantasia, un altro conto è metterli in testa a personaggi storici realmente vissuti. Se poi parliamo di personaggi che, nel bene o nel male, hanno avuto ruoli determinanti nella storia, il pericolo costante di un certo revisionismo storico è sempre dietro l’angolo.

Insomma: oggi leggo un libro e mi faccio una certa idea su un certo personaggio storico realmente esistito.
Domani leggo un altro libro, ambientato nello stesso periodo storico che, guarda caso, parla dello stesso personaggio, ed ecco che mi faccio un’idea diversa, migliore o peggiore.

La responsabilità dello scrittore

Ne avevo già parlato e ammetto che è un timore che mi torna spesso.
Certi romanzi sono scritti talmente bene e così curati in ogni dettaglio che un lettore rischia davvero di prender per vero quel che legge. D’altra parte, quanti sono, tra i cosiddetti “lettori forti”, coloro che, terminata una lettura, si prendono la briga di andare ad approfondire quanto letto?

Io lo faccio spesso, e a volte mi sembra di essere uno strano animale in via di estinzione. Vago con Google Street e Google Earth, lo ammetto: vado a vedere i posti in cui sono ambientate alcune scene. Non perché metta in dubbio quel che leggo, ma perché in un certo senso voglio “essere là”, là dove sono passati i personaggi, là dove sono accadute le vicende romanzate.
Tuttavia, certe volte mi trattengo.

Nel caso specifico di questo romanzo, La profezia perduta di Giordano Bruno, la profezia è andata veramente perduta, forse non è nemmeno mai esistita. Gli autori sono entrati troppo nella psicologia del personaggi (di tutti i personaggi) ed è palese che non possono aver conosciuto i pensieri che hanno messo loro in testa.
Insisto: probabilmente non avrebbero potuto farlo neanche se avessero conosciuto di persona queste persone, scrivendo quindi biografie anziché romanzi.

Resto quindi con questa (eterna) domanda: fino a che punto un autore può permettersi di entrare nella psicologia di un personaggio realmente esistito?

 

2 commenti su “Storico problema

  1. La tua domanda è esattamente uno dei motivi per cui non mi piacciono questo tipo di romanzi storici. Un conto è un romanzo dove si usano dei personaggi inventati e li si calano nel passato, in una particolare situazione, e magari ci sono dei personaggi realmente esistiti a cui puoi far dire un paio di cose (studiando parecchio nei libri di Storia, riciclando magari qualche testo scritto che hanno lasciato ai posteri). E già ci stiamo allargando. Ma la pretesa di sapere cose c’era davvero nei loro pensieri… no, non credo che un autore dovrebbe. Il rischio è che qualcuno scambi un romanzo di finzione per la verità. Non va bene.

    1. Concordo. Non va bene. Però ci sono momenti in cui penso che romanzare sia un modo per raccontare la verità, magari un modo più furbo, strategico, tattico.

      Insomma, la verità comunemente accettata a volte (o spesso?) non è la verità vera, non è il realmente accaduto. Guarda solo quante volte ci viene ricordato che la storia viene scritta dai vincitori…
      Ma raccontare le cose come stanno spesso si disturba, si dà fastidio. Ecco che allora la finzione diventa uno scudo, un lasciapassare: ti disturba una storia raccontata in un romanzo storico? Non ti preoccupare, tanto è finzione.
      Però intanto te l’ho raccontata…
      E nella vasta platea di lettori, raggiungi sempre qualcuno che non è affatto disturbato, anzi: rimane affascinato. E può accettare storie alternative. Può mettere in dubbio la verità comunemente accettata.

      In questi casi lo scrittore ha addosso un’enorme responsabilità.

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