Scriverò alcune cose un po’ ovvie. O quasi.
Partiamo, ad esempio, dal titolo di questo post: può sembrare ovvio che sia una recensione del quasi-omonimo romanzo. Ma non lo è: quella che segue è solo una serie di constatazioni che ho voluto provare a ignorare prima di intraprendere questa lettura. Chissà: forse speravo di sbagliarmi, forse speravo di trovare qualcosa che mi avrebbe stupito.
Parliamo della superficie…
per non parlare della superficialità.
La copertina, se possiamo considerarla impropriamente come superficie “fisica” dell’oggetto-libro, trasmette alcuni messaggi molto chiari.
Il nome dell’autore è più grande del titolo: quindi si tratta di un autore famoso che non ha bisogno di presentazioni. Tanto famoso e conosciuto che il titolo e magari pure la trama è del tutto secondario: infatti, il titolo è al secondo posto, scritto più in piccolo. Anche qui il messaggio “sub-liminale” è abbastanza chiaro: non importa cosa leggi, di questo autore puoi leggere qualsiasi cosa.
Il nome del “co-autore” è ancora più sotto, in terza posizione. Forse che quel “co-” sta per “correttore di bozze”? Battuta è un po’ cattivella. Però, per certi versi, la risposta è sì: è sembrato proprio il correttore di bozze.
Ma di fatto non lo è stato: l’autore, a quanto è dato di sapere (link?), ha concluso un lavoro postumo del compianto (e quanto compianto!) Crichton. Lavoro che, va detto, dovrebbe (o avrebbe dovuto) essere il seguito del primo romanzo: Andromeda. Ne avevo tratto un paio di brani interessanti: la teoria del messaggero e il granito vivente . Ma avrei potuto trarne molti altri.
Passiamo alla sostanza
Sulla sostanza non c’è molto da dire, se non – appunto – l’ovvio. La trama è a tratti insensata. Naturalmente è impossibile sapere se la parte insensata sia imputabile all’autore o al co-autore.
Lo stile è, per ampi tratti, lontano da quello del compianto Crichton. Addirittura, in alcuni punti, sembra proprio di intravedere il tentativo goffo di imitazione da parte del co-autore. Non saprei dire perché. Ho avuto spesso quella sensazione che si prova quando, parlando con qualcuno, si percepisce che quel sta dicendo non sia proprio farina del suo sacco. Il ritmo? Non ci siamo. Manca quel “che” di incalzante, tipico di Crichton. E’ tutto troppo blando, si rimane con quella prolungata sensazione di qualcosa che non arriva mai al dunque, di qualcosa che fatica a decollare.
E la scienza? Manca. Manca dannatamente. Non parlo di “scienza da stordimento”, come quella ravvisata nel problema del tre porci (Link).
Crichton aveva la capacità di intercalare perle di scienza con quel tono divulgativo che affascina, che non stanca. E queste perle le metteva spesso nei dialoghi, con un metodo molto spiccio, senza troppi fronzoli: due personaggi si parlano tra di loro, espongono i loro pensieri, e tu, lettore, leggendo eri lì seduto al tavolo con loro, a fare quasi il terzo personaggio che ascoltava. In silenzio, ma coinvolto. E il dialogo, essendo appunto un dialogo, era spesso informale, non ricercato, non ampolloso.
Niente. E’ mancato tutto questo.
Quindi non è stata un’evoluzione, ma un’involuzione. Era ovvio, avrei dovuto aspettarmelo: dal nome dell’autore, scritto in grande di sopra, siamo “scesi” al nome del co-autore.
Scritto in piccolo.
Scritto sotto.