Tempo fa qualcuno, scrivendo, ha cominciato a giocare con l’eco mettendo per iscritto alcuni ricordi.
Poco dopo ho provato a giocare con l’eco dell’eco. A farne le spese, un racconto di Barbara … 😛
Questa cosa dell’eco – o meglio: dell’eco dell’eco –  comincia a piacermi.
Sarà perché non sai mai come va a finire. Oppure… sarà perché è una cosa non richiesta… 😛

Lo scopo del gioco, a cui probabilmente mi diverto solo io, è quello di distorcere riscrivere un testo.
Come già detto, la questione non è riscrivere meglio o peggio, ma riscrivere con il proprio stile e osservare le differenze che emergono. Potrebbe sembrare un esercizio vuoto e fine a se stesso, ma mi aiuta a capire meglio certi miei connotati stilistici e, perché no, magari evidenzia anche i connotati stilistici di chi ha scritto il testo originale.

La vittima di questo giro è La ragazza alla finestra, racconto di Marina.

Quando Martino la vide, poco dopo la mezzanotte, ebbe un sussulto: era certo che fosse Simona.
Il profilo di Simona. I capelli neri di Simona. Gli stessi occhi di Simona. Ma non era Simona.

Non poteva essere Simona. Valigia in mano, se n’era andata una mattina di fine marzo.
“Parto per Londra”, aveva detto. “Parto con John”.
John? Ma non era soltanto l’ “amico” inglese?
Martino ricordava bene quella mattina. Era il giorno del suo compleanno.
“Ah… auguri.”
Chiusa la porta, Simona l’aveva piantato così.

Martino ritornò con il pensiero a quella donna che ora aveva di fronte. Seduta alla finestra del pianoterra, non l’aveva mai notata. Eppure non era la prima volta che Martino faceva quel tragitto. Anche quella sera stava andando a buttare le solite bottiglie di vino, le uniche amiche frivole a cui poteva chiedere di rammendare gli strappi della solitudine. Con passo incerto, attraversò la strada per avvicinarsi alla campana di raccolta del vetro, posta di fianco al cassonetto. Cercò di infilarvi dentro le bottiglie con cautela ma il rumore fu inevitabile. Il lancio aveva prodotto una deflagrazione tale che avrebbe potuto svegliare l’intero vicinato. Si voltò per tornare sui suoi passi e incrociò lo sguardo della ragazza il cui biasimo lo fece sentire come un vagabondo sorpreso a chiudersi la cerniera dei pantaloni vicino al tronco di un albero.
«Scusa…» disse incerto. Puntò l’indice molle verso la campana del vetro «Le bottiglie… non sai mai come infilarle in quel coso… e a volte esplodono…»
La tipa rimase in silenzio, accennando un sorriso. Martino si avvicinò e appoggiò una mano sul muro del palazzo. Alzò la testa verso la donna che rimase dov’era, senza allontanarsi dalla finestra o chiuderla. Poi, ingoiando un boccone di umidità, prese a tastarsi la giacca, finché non trovò le Lucky Strike.
«Fumi?»
«No. Non dovrei… ma chissenefrega!»
Le porse una sigaretta. La ragazza doveva avere un accendino da qualche parte perché non si curò di aspettare che lui le allungasse la fiammella del suo. Martino diede una lunga tirata e la guardò con un’attenzione diversa.
«Sono uno sconosciuto. Non hai paura?» Sbuffi di fumo gli s’inerpicarono tra le parole e gli zigomi appannandogli la vista. Il resto lo espirò con un soffio deciso.
La giovane donna fece cadere la cenere dentro un bicchiere di plastica che aveva appoggiato sul davanzale.
«Sembri a posto. Più sbronzo che maniaco.»
Martino si aggiustò il colletto della camicia sotto la giacca, cercando di darsi un contegno. Assottigliò gli occhi, stringendo la sigaretta tra le labbra.
«Mi chiamo Martino.»
«Emma» gli andò dietro lei, senza tendergli la mano.
«Oh! Come Emma Watson. L’attrice…»
«Oppure come Emma Bovary. Mia madre adora il romanzo di Flaubert. Dice sempre di avermi dato questo nome dopo averlo letto… Conosci “Madame Bovary”, no?»
Martino si accorse che lo sguardo che le aveva rivolto, privo di espressione, l’aveva fatta ridere. Capì di averle dato l’impressione di uno che si stava affannando a cercare qualcosa che non trovava.

“Madame Bovary” era scomparsa dalla sua memoria di lettore occasionale ma Flaubert, quello, no. Quel nome ancora faticava a dimenticarlo: gli tornò alla memoria un litigio con Simona, degenerato a suon di libri presi e scagliati con traiettorie mirate. Una bomba cartacea gli aveva stampato in fronte la promessa di un bernoccolo prima di rimbalzargli in mano. E quella bomba, in mezzo a quel fuoco incrociato di copertine, recava proprio il nome di Flaubert.

Un refolo di vento trascinò per qualche metro una carta di alluminio, che prolungò il suo crepitio sulla strada finché non andò a incastrarsi sotto la ruota di un’auto parcheggiata; Martino, distratto da quell’ultimo pensiero, tossicchiò e si voltò di nuovo verso Emma.
«Che fai seduta, a quest’ora, davanti a una finestra spalancata?»
«Mi godo il silenzio. Di giorno, questa strada è un tale caos.»
«Non ti ho mai vista da queste parti. Abito laggiù» disse con un vago cenno del mento. «E non ti ho mai incontrata.»
Emma scrollò di nuovo la cenere della sigaretta dentro il bicchiere.
«Non sto molto in giro.»
Martino gettò il mozzicone per terra e lo sminuzzò sotto la scarpa. Si accorse di apprezzare quel piacevole diversivo, dopo serate intere trascorse su un divano. La musica in cuffia non bastava mai a zittire la schiera di pessimi pensieri. Una relazione sentimentale finita, una vita da rifare, un nuovo lavoro da cercare.

Rimase a parlare con Emma per un’ora e mezza, affascinato dai sorrisi che lei dispensava con parsimonia e dalla sua ostinata postura davanti alla finestra. Seduta, con i gomiti ben piantati sul davanzale, muoveva il viso poggiato sulle mani incrociate, assecondando il proprio tono di voce o le frasi di Martino: se qualcosa la metteva a disagio, Emma ruotava la testa lievemente di lato per nascondere il rossore camuffato dalla luce artificiale dei lampioni; se le raccontava una cosa buffa, lei faceva scivolare il viso in giù fino ad appoggiare il naso sulle mani e ridere di soppiatto.
Non era più Simona agli occhi di Martino: Simona aveva l’abitudine di dialogare in piedi, con un braccio flesso a reggere il gomito dell’altro e la mano libera che spazzolava l’aria, una parola sì una parola no. Una postura così saccente, così innaturale! Anche quando litigavano, la sua bocca si contraeva, si dilatava, si arricciava con un ritmo studiato, come se stesse recitando un copione, copione che prevedeva spesso – troppo spesso – un finale in lacrime. Simona non aveva la dolcezza di Emma nel raccontarsi.
Emma era stata un’atleta, ora non più.
Correva fino a quindici chilometri al giorno, ora non più.
Studiava pianoforte al biennio del Conservatorio. Questo lo faceva ancora. E dava anche lezioni di musica a una bimba “prodigio”… Comprava compulsivamente libri e leggeva ogni sera. Avevano riso di qualche battuta. Lo sguardo di Martino continuava a posarsi sul suo mezzo busto: la scollatura si fermava al punto giusto, dove il seno formava un’ansa in cui la croce della collana sembrava volersi infilarsi, ogni volta che lei si muoveva avanti e indietro.
Emma era simpatica, timida, intelligente. Non era bella: aveva la bocca sottile, il viso irregolare e denti che, a dispetto della loro imperfezione, rendevano perfetto il suo sorriso.
Simona aveva la bocca carnosa, dentatura impeccabile, che, però, lo rendevano affettato, il suo sorriso. Non bello. Era un po’ snob, disinibita e anche lei intelligente, sì. Almeno abbastanza da aspettare il momento opportuno per lasciarlo. Martino non si era mai soffermato a pensare che era già trascorso quasi un anno dalla fine del loro rapporto.

«Ti andrebbe di fare una passeggiata?» disse Martino, incoraggiato dalla confidenza raggiunta.
«A quest’ora?»
«Io non dormo» aggiunse. «Tu nemmeno…»
«Tra poco pioverà, non lo senti l’odore di bagnato nell’aria?»
Emma staccò i gomiti dal davanzale e si passò una mano fra i capelli. Il sorriso le si era spento in viso.
«Okay, scusa. Mi conosci appena. E per di più pensi che sia brillo. Il che è vero, considerato che mi è venuto il torcicollo per parlare con te.»
Il sorriso di Emma resuscitò dalla piega dritta delle labbra.
Come un presagio indovinato, cominciò a piovere.
«… Tempismo perfetto! Mi conviene rientrare in casa.»
Martino si cacciò le mani in tasca, incassando il collo dentro la giacca. «Posso rivederti domani?»
«Non saprei…»
Capì di avere messo in difficoltà Emma. Il suo sguardo evitava gli occhi di Martino che aspettavano una risposta.
«Il tempo di un caffè… Di una chiacchierata…»
Forse si era sbilanciato troppo, ma parlando con lei aveva immaginato un’opportunità e non voleva si trasformasse in una occasione perduta.
«È un po’ complicato…» rispose lei.
Aghi di pioggia costringevano Martino a tenere la testa piegata. Pensò a cosa potesse complicare un loro eventuale incontro e la cosa più ovvia che gli venne in mente fu la possibilità che ci fosse un uomo nella vita di Emma. La guardò, riparandosi con una mano e la incalzò apposta.
«Mi prenderò un accidente. Che dici, allora?»
«Ci penserò… se non sarai tu, a ripensarci prima…» Emma pronunciò quest’ultima frase a voce bassa, con tono ironico, rassegnato, quasi beffardo.

Si sporse di lato e tirò verso di sé il bracciolo di un’altra sedia, rimasta dietro la tenda come una discreta dama di compagnia. La luce arancione del lampione si poggiò sulla cromatura delle parti metalliche. La ragazza fece leva con le braccia e si sedette sul trono con le ruote, cui la sua vita da principessa sfortunata l’aveva condannata.
Martino trattenne fiato e parole, impermeabile alla pioggia che cominciò a infierire su strade, auto, alberi.
Emma, con un sorriso cucito sulle labbra, spiccicò un «ciao» che non gli alleviò la delusione. Si ritirò nella stanza, come una bambola di pezza costretta a tornare dentro la sua cesta dopo un bel gioco. Doveva essere bello, ogni tanto, vivere l’illusione della normalità, pensò Martino con tenerezza. La salutò con un cenno calmo e rassegnato, finché la finestra non si chiuse del tutto.

Martino si svegliò che il sole era già alto nel cielo, ma tingeva di autunno quella domenica di maggio, coperto com’era da uno strato denso di nuvole che minacciavano ancora pioggia.
Andò in cucina, si riempì un bicchiere d’acqua e guardò fuori, in direzione dell’isolato più avanti. Non era mai stato così vicino alla preghiera come nella notte appena trascorsa: il silenzio e l’insonnia gli avevano dettato pensieri, ispirato progetti, suggerito buoni propositi.
Sbirciò le lancette dell’orologio, poi si vestì in fretta. Uscendo si ricordò di prendere l’ombrello.

Aveva un appuntamento.

( Photo Credit : Steve Buissinne / Pixabay )

10 commenti su “L’eco del racconto

  1. Ma bravo! Il mio silenzioso editor: hai fatto un buon lavoro di fino; ho trovato delle soluzioni ben riuscite e poi, il nostro modo differente di punteggiare la narrazione mi stupisce tutte le volte.
    Grazie: devo qualcosa per l’editing spontaneo? ????

    1. No, che? Scherzi? E’ già tanto che non te la sei presa. A momenti mi è sembrato di LISHARE troppo… Mi piace la tua definizione. Intendo quel “silenzioso”… non “editor”. 😀 😀 😀
      Che “editor” e “scrittore” sono due paroloni…

      Ho notato anch’io che abbiamo un modo differente di punteggiare. A volte la scintilla mi parte da quello.

  2. “Era una notte meravigliosa, una di quelle notti che possono esistere solo quando siamo giovani, caro lettore. Il cielo era così pieno di stelle, così luminoso, che a guardarlo veniva da chiedersi: è mai possibile che vi sia sotto questo cielo gente collerica e capricciosa? Anche questa domanda è da giovani,caro lettore, proprio da giovani, ma che Dio la faccia sorgere più spesso nell’anima tua! … A proposito di persone colleriche e capricciose, non posso non ricordare come mi comportai bene durante tutta quella giornata. Fin dal mattino ero stato tormentato da una strana angoscia….”

    Che non è Flaubert, quello no, ma il punto di partenza di questo gioco di specchi ed echi, magari, sì.

    1. “Era una notte maravillosa, una de quelle notti che possono esistere solo quanno siamo giovini, caro lettore. Il cielo era così fullo di stelle, così luminescente, che a taliarlo veniva da chiedersi…”

      Ma come caxxo scrivo? 😀 😀 😀

      Che non è italiano il mio, no. Ma il punto di prosecuzione di questo gioco di specchi ed echi, sì. Che gli specchi a volte storpiano, prima di riflettere… 😛

  3. E pensare che, per una questione di newsletter/notifiche ordinate in modo casuale, ho letto prima questo che il racconto originale. Così uguali, eppure così diversi. Bravi! 🙂

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