Brucavo beato per i pascoli social, quando mi sono imbattuto in questo articolo.
Il titolo – Dirlo con poche parole – e l’immagine piuttosto eloquente sono stati sufficienti per farmi inarcare il sopracciglio e per farmi sentire chiamato in causa.
Tempo addietro infatti, ho avuto i miei pensieri e retropensieri su quando – e come – tagliare i testi che mi diverto a scribacchiare. Senza contare che nella fase di stesura di un qualsiasi racconto, tra le innumerevoli riletture, ci dovrebbe essere (così dicono) una necessaria fase di “taglia&asciuga” del testo, con eliminazione di aggettivi inutili, di avverbi superflui se non addirittura di intere frasi o paragrafi.
Leggendo l’articolo
“Il primo passo è saper riassumere. E il primo trucco per riassumere bene è leggere benissimo.”
“Un saggio, un testo narrativo, un articolo di cronaca e uno d’opinione hanno strutture diverse: prima vi familiarizzate, più rapidamente riuscite a estrarre le informazioni che servono. Non distraetevi mentre leggete. Selezionate e riassumete solo le informazioni pertinenti alla vostra ricerca.”
Tutto sommato, nonostante venga citato anche il testo narrativo, l’articolo non è riferito alla narrativa vera e propria ma ad altra “letteratura” (virgolette d’obbligo), specie se destinata a qualcuno che fatica “a concentrarsi e pretende solo riassunti di una pagina, integrati da schemi e mappe” (cito sempre dall’articolo).
Ecco il punto: qualcuno che fatica a concentrarsi.
Mi sono chiesto: il lettore, in quanto tale, può essere inteso come “qualcuno che fatica a concentrarsi” ? Mi verrebbe da dire: no, perbacco! Chi scrive ovviamente non può conoscere i lettori uno per uno, ma è ovvio che il lettore non può avere problemi di concentrazione, altrimenti non si cimenterebbe affatto nella lettura. Detto questo, è altrettanto ovvio che quando si scrive non ci si può abbandonare a briglia sciolta alla logorrea più sfrenata.
Una prima riflessione
Mi sono chiesto se la necessità di riassumere o di sintetizzare non sia una necessità distorta, mutuata dalla dimensione digitale e social di quest’epoca in cui molte persone vivono connesse e dove le informazioni corrono veloci, immediate. Spesso questo compito (la comunicazione, l’immediatezza) è affidato a immagini e video.
Quelle poche volte che si ricorre alle parole scritte, queste devono essere condensate in frasi stringate, immediate, corte. E naturalmente efficaci.
Come se non bastasse, l’efficacia delle frasi deve essere a volte sorretta (ancora) da immagini che si infilano tra le parole sotto forma di emoticon (le famose faccine gialle con le espressioni). Il tutto dettato dai limiti di lunghezza e/o “bon ton” del social di turno (Facebook, Twitter, Whatsapp, Telegram…).
Una seconda riflessione
Ti amo. Queste due parole, a seconda del contesto, possono significare tutto o nulla, possono essere il riepilogo di una ricchezza di emozioni o incarnare la scarna delusione di un’attesa quando si vorrebbe qualcosa di più.
Ho avuto la fortuna di vivere la prima giovinezza quando ancora non esisteva il circo di internet. A quei tempi, la lettera scritta a mano era tutto. Io e mia moglie, in nove anni di fidanzamento, ne abbiamo scritte molte. Cito un mio commento fatto tempo fa su un blog che frequento:
“Immagina due giovani innamorati che hanno vissuto l’adolescenza e la giovinezza negli anni ’90 o prima, quando non esistevano internet, social networks, telefonini e quant’altro. La lettera, a quei tempi, era tutto. E due innamorati che si scambiavano lettere e biglietti d’auguri (al compleanno, a Natale) aspettavano fremendo queste lettere, scritte ovviamente a mano. I due innamorati sapevano di amarsi e quindi scrivere solo “ti amo” (un “buon compleanno”, un “buon Natale”…) sarebbe stato deludente perché ovvio. Si voleva di più. Più parole per pensare, per rileggere e sognare. Per rivivere anche i momenti passati insieme. Lettere che a volte si facevano persino leggere all’amica del cuore. Lettere che magari si conservano gelosamente per rileggere quando si sta lontani.
Lettere che solo chi era (è) ricco di lessico può scrivere con grande efficacia.
Immagina se quelle lettere fossero state scritte solo con un “ti amo”. Essenziale ma forse, in quel contesto e a quel lettore (la dolce metà), paradossalmente sarebbero sembrate ovvie, scontate, banali. Forse persino fredde.”
Ho estrapolato questo mio commento da una discussione nata intorno a una citazione secondo la quale “avere un buon lessico ti fa risparmiare parole” (Roberto Casati, filosofo della conoscenza).
Io nel mio piccolo resto fermamente convinto che avere un buon lessico ti permette di avere sempre le parole giuste, nel momento giusto. Le parole giuste, che siano due (ti amo) o mille, possono essere risparmiate o meno a seconda del contesto e del destinatario.
Tornando all’articolo
E quindi, gira e rigira, si torna all’articolo iniziale. Devo riconoscere che quando si vuole dire (o scrivere) qualsiasi cosa, dirlo con poche parole è un’arte.
Ma forse la vera arte sta nel saper scegliere il momento giusto per dirlo.
E distinguere il momento in cui servono poche parole dal momento in cui ne servono tante, senza dimenticare che a volte persino il silenzio vale più di mille parole.
Non so perché, ma pure io mi sento chiamata in causa. 😉
Sarà per via di quel contest che voleva limitarti le parole?!
Avere un buon lessico farà anche risparmiare parole, ma se risparmi sulla stoffa il vestito ti starà malissimo, facendoti apparire (e sentire) obeso, trascurato e goffo. Qualche centimetro in più può sempre essere sistemato, qualche centimetro in meno e devi buttare tutto.
Certo che sì: è proprio al tuo contest che mi riferivo. 😀
E hai proprio ragione: le parole sono un po’ come la stoffa. A volte è meglio averne qualcuna in più, l’importante è fare in modo che non si ripetano. Tanto a tagliare si è sempre in tempo, anche se non sempre è necessario. 😛
Bah, io sono contrario alle parole soltanto quando sono vane. Per il resto, concisi o articolati che siano, i pensieri uno li esprime come vuole e come può.
Be’, direi che su questo siamo pienamente d’accordo! 🙂
Belin, spero anche su altro 😀
Da quel che vedo bazzicando in giro per gli altri blog, direi che sì, siamo d’accordo anche su molto altro. 😉
Come riconosci se il contesto è quello giusto per dire poco o tanto?
Se ti affidi al tuo metro di giudizio, puoi fare qualsiasi cosa sia meglio per te. La difficoltà è scrivere pensando di dovere essere letto da altri, non per piacere agli altri, intemdiamoci, ma per arrivare a tutti con le stesse intenzioni.
Per riconoscere il contesto bisogna semplicemente viverlo.
Nella mia seconda riflessione (ti amo) ho parlato di un contesto vissuto.
Se lo vivi (e decidi di scriverne) automaticamente sai se usare poche o tante parole.
Esistono anche contesti in cui, pur non avendoli vissuti in prima persona, ci si può immedesimare con una credibilità più che accettabile.
Credo che il bravo scrittore deve sapersi immedesimare in tali contesti o quantomeno avere la giusta saggezza per non raccontare di contesti in cui non può immedesimarsi per mille motivi. Altrimenti rischia di perdere in credibilità e spontaneità, due motori che ritengo fondamentali per la buona riuscita di una storia ben scritta.
Il bravo scrittore deve anche essere abbastanza saggio per capire che, a parità di sue intenzioni, di buona tecnica e prosa, di stile ben definito e godibile, non potrà mai arrivare a tutti i lettori con la giusta efficacia.