Il nuovo professore entrò in classe. I ragazzi, intenti a scambiarsi battute, risatine e foto social dell’estate appena finita, non si scomposero più di tanto.
Il professore sfogliò un paio di libri che teneva sotto braccio, poi sedette sfogliando con pazienza una rivista di scienze. Passarono alcuni minuti. Poi, con garbo, cominciò a bussare con le nocche della mano davanti a sé, sul piano lucido della cattedra. Il brusio diminuì, ma non abbastanza. Passò un altro minuto e riprese a crescere. Sospirò guardando fuori dalla finestra ammirando per un attimo gli alberi che cominciavano a vestirsi d’autunno. Poi si alzò, andò alla lavagna, prese un gessetto immacolato e cominciò divertito una delle sue performance più collaudate.

Lo stridio all’inizio fu lieve, cauto. Calibrato.
Poi diede un affondo deciso, ottenendo un silenzio quasi immediato. Sorrise davanti alla lavagna. Poi, recuperata l’espressione più seria possibile, si voltò. I ragazzi lo fissavano disturbati.
“Grandioso!” disse. “Di solito lo faccio con le unghie ma purtroppo questa mattina ne ho spezzata una prima di uscire di casa…”
Gli studenti tornarono silenziosamente ai posti, pronti per cominciare.
“Allora, signori miei. Quanti di voi vogliono imparare a fare meno fatica possibile nella vita?”
Qualcuno rimase stranito a quella domanda. Alcuni sguardi indugiarono sull’orario provvisorio annotato sul cartellone alle spalle del professore. Era l’ora di matematica.
“Cioè?” disse qualcuno. La più tipica delle domande adolescenziali, pensò il professore. Per tutta risposta prese a camminare avanti e indietro davanti alla cattedra, misurando il silenzio con il suono dei suoi tacchi.
“A quanti di voi piace la matematica?”
Un paio di mani si alzarono dopo risatine sommesse e spintoni amichevoli tra i banchi.
“Grandioso!” ripeté con enfasi. “E ditemi: a cosa serve la matematica?”
Silenzio imbarazzato. Poi qualcuno azzardò una risposta dicendo che la matematica non serviva a niente.
Il professore guardò divertito il baldo giovane. Aveva l’aria del tipico ragazzino poco avvezzo all’autorità degli adulti. Ma gli occhi tradivano un barlume d’interesse.
“Lei ama fare fatica nella vita?” lo apostrofò il professore.
Un mormorio goliardico animò i compagni alle spalle dello studente.
“Per nulla!” rispose.
“Grandioso! Anch’io odio la fatica.”

Il professore si voltò verso la cattedra, aprì una rivista e tirò fuori un triangolo di carta. Era un triangolo rettangolo. Lo sollevò in aria con fare teatrale per mostrarlo agli studenti. Poi estrasse un comunissimo righello da trenta centimetri e disse: “Chi di voi vuole iniziare l’anno con un buon voto? Si faccia avanti e trovi il modo più veloce per calcolare l’ipotenusa di questo triangolo.”
Gli studenti divertiti si scambiarono qualche occhiata perplessa. Poi una ragazza, sicura di sé, si alzò, prese triangolo e righello, misurò i lati e, anziché misurare l’ipotenusa, ne ricavò la lunghezza applicando il teorema di Pitagora. Non fu difficile.
“Ottimo, grandioso!”
Il baldo giovane che aveva decretato l’inutilità della matematica, sicuro di sé, obiettò. “Scusi, prof. Lei ha chiesto il modo più veloce. Faccio molto prima a misurarla col righello, l’ipotenusa… A che mi serve conoscere il teorema di Pitagora?”
Il professore, per tutta risposta, si limitò a guardare fuori dalla finestra. Ammirava ancora gli alberi del giardino della scuola.
“È sicuro di quel che dice?” chiese poi.
“Certo! Se mi dà triangolo e righello glielo dimostro subito… però mette un buon voto anche a me.”
Il professore sorrise. Poi, agitando il righello come una bacchetta magica, si voltò.
“Allora mi segua.”

Aprì la porta finestra che dava sul giardino della scuola, fece due passi e indicò tre alberi che formavano idealmente i vertici di un triangolo rettangolo. Due alberi erano vicini tra loro: distavano due o tre metri l’uno dall’altro. Il terzo, in linea con uno dei due alberi vicini, distava invece una decina di metri, tracciando idealmente sul prato un triangolo molto allungato.
Gli studenti, che si erano accalcati alle finestre, seguivano la scena divertiti.
“Bene” riprese il professore rivolto allo studente. “Li vede questi alberi? Formano un triangolo rettangolo. Ne misuri l’ipotenusa, le lascio il righello” aggiunse.
“Ma… prof… devo misurare con questo righello?”
“Qual è il problema? Non è stato forse lei a dirmi di darle un triangolo e il righello?”
I suoi compagni cominciarono a ridere ma il professore li redarguì con uno sguardo perentorio. Poi proseguì.
“Le darò lo stesso voto che ho dato alla sua compagna. E le do pure un aiuto. Ipotizziamo che il lato lungo del nostro triangolo sia di dieci metri. A questo punto, per conoscere la lunghezza dell’ipotenusa usando solo il righello che ha in mano, lei ha solo due possibilità: misurare l’ipotenusa come da lei sostenuto. Oppure misurare, sempre usando il righello che ha in mano, il lato corto del nostro triangolo, quello compreso tra i due alberi vicini. Qual è il metodo più veloce?”
Lo studente osservò la disposizione degli alberi. E poi capì.
Capì la soluzione ma, soprattutto, capì il senso della lezione. In quel caso, con il righello in mano, era molto più veloce misurare la distanza tra i due alberi che delimitavano il lato corto. Era l’unico dato mancante per applicare il teorema di Pitagora. Se avesse misurato l’ipotenusa a mano avrebbe sicuramente impiegato più tempo.
“Quindi?” lo incalzò il professore.
Lo studente gettò la spugna.
“Se lei dice che il lato lungo misura dieci metri, misuro il lato corto tra i due alberi. E per conoscere la lunghezza dell’ipotenusa” aggiunse con uno sguardo rassegnato verso l’albero più lontano. “faccio molto prima con il teorema di Pitagora…”
“Grandioso!”
Lo studente, con un’espressione di sconfitta, accennò a rientrare in classe.
“Ma che fa? Dove va?” disse il professore. “Non lo vuole più il buon voto? Forza, misuri la distanza con il righello e faccia il suo calcolo. Si rallegri, oggi porterà a casa un buon voto ma, soprattutto, avrà imparato che la matematica nella vita le farà risparmiare tempo e fatica.”

Iniziò così un anno proficuo in cui molti studenti cominciarono ad appassionarsi alla matematica, attratti più dai numerosi risvolti pratici che dalla pura teoria. Il professore si guadagnò ben presto, complice la sua esclamazione ricorrente, l’appellativo di “Professor Grandioso”.

(C) 2019 – Darius Tred

 

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4 commenti su “Il Professor Grandioso

  1. Mi è piaciuto. Io, che di matematica non ho mai capito un beato tubo, mi infilo nella classe del prof. Grandioso e mi faccio ammaliare dalle sue spiegazioni. 😉

  2. Il professor Grandioso ha logicamente ragione. Però io alla misura della distanza tra i due alberi, gli avrei detto: “Scusi professore, ma ad ogni misura va anche utilizzata la giusta strumentazione.” E avrei tirato fuori il mio distanziometro laser. 😉
    “E se le chiedevo di misurare la distanza tra due edifici?” “A professò, si cercano le mappe catastali georeferenziate e si usa un software GIS…” 😀

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