Qualcuno ha cominciato a giochicchiare con l’eco. E, come spesso accade, l’eco non ha una voce sola: a volte, una parte si ripete. Altrimenti che eco sarebbe? E la parte che si ripete, magari si distorce, scollandosi dalla voce iniziale. Come in questo caso, dove l’eco di Barbara… ha prodotto una nuova eco. L’eco dell’eco, insomma.
Distorta, riscritta. E ovviamente non richiesta… 😛
In altre parole, un esercizio di stile dove mi son divertito a prendere il brano di Barbara per riscriverlo alla mia maniera senza stravolgerlo troppo. Naturalmente non si tratta di riscrivere meglio o peggio un pezzo ma, semplicemente, di riscriverlo cercando di focalizzare i punti in cui emerge il proprio stile.
Spesso mi rifugio in giardino a leggere e scrivere. Da quando è stato rifatto, anche se i lavori non sono ancora terminati, bagnare il prato nuovo è diventata un’attività molto rilassante, specie dopo una lunga e afosa giornata di lavoro.
Purtroppo però i turni stabiliti dalle altre piccole e temibili inquiline sono piuttosto rigidi: quando il terreno è in ombra, spuntano fuori loro, zanzare tigre talmente grosse e fastidiose che metterebbero a dura prova anche San Francesco.
Allora mi ritiro nel mio primo luogo preferito di lettura: la panchina di legno in terrazzo, dove stranamente le bestiacce non arrivano.
Non sanno fare le scale, si vede.
Da lì posso osservare tutta la zona circostante: dall’incrocio in fondo alla strada fino alla fermata dell’autobus che sta dall’altra parte. E tutto senza essere vista, dato che i ciuffi alti delle piante sui vasi mi nascondono bene senza impedire la visuale.
Ma tanto in questo quartiere non succede mai niente. Anche se…L’ultima volta me ne stavo lì assorta. Cercavo di leggere, continuamente distratta dai pensieri ingarbugliati della vita. Sollevavo di tanto in tanto lo sguardo lungo la strada, quando qualcosa di insolito colpì la mia attenzione.
Una camicetta bianca.
Nel piccolo fazzoletto verde del prato di fronte, una giovane biondissima – troppo bionda per essere naturale – sembrava presa da un set fotografico. Smanicata, un décolleté generoso e un paio di cortissimi short di jeans.
Si chinava, si voltava, ancheggiava. Rideva con fare ammiccante per poi sollevare i capelli e ondeggiarli sulle spalle.Di fronte a lei un signore anziano intento a maneggiare un cellulare. Le faceva cenni per spostarsi, alzare il mento, cambiare la posizione. Ma non aveva l’aria di essere un fotografo: capelli bianchi, calvizie incipiente, pantaloni un po’ retrò con le pinches e una brutta camicia quadrettata a maniche corte.
Forse il nonno… ?
Dimentica della mia lettura, continuavo a osservare l’assurda scenetta, alla ricerca di ulteriori indizi. Mi aspettavo di scorgere il giovane fidanzato, la truccatrice o il parrucchiere: se fosse stato davvero un set fotografico – con un cellulare? -, sarebbe stato decisamente fuori luogo. Perché scegliere un prato incolto attorno ad anonime villette bifamiliari? Pochi passi più avanti s’intravedeva una bellissima villa veneta.
No, non è un set fotografico. È davvero il nonno?L’uomo guardò l’ultimo scatto sul display, lo mostrò alla ragazza che sorrise soddisfatta prima di riprendersi il telefonino e infilarselo nella tasca dei pantaloni. Il “nonno” appoggiò la mano con sicurezza sul fondoschiena di quegli short in jeans, per accompagnarli lentamente nella vicina trattoria. La camicetta bianca a sua volta gli passò un braccio dietro la schiena, prestando volentieri la scollatura allo sguardo di lui.
No, non è il nonno…
L’anziano signore si allontanò con la giovane amante dell’Est Europa. Sorrido. A cosa servissero le foto, non è dato saperlo ma posso intuirlo con facilità: lui si vanterà con gli amici e lei mostrerà ai parenti lontani le nuove – lussuose – condizioni di vita. Un cliché così banale. Forse dopotutto i cliché esistono per un motivo, nessuno li ha inventati dal nulla.
Non succede mai niente in questo quartiere, mai nessuna storia interessante da raccontare…
Oh mamma, hai passato il tagliaerba sul mio testo!! 😀 😀 😀
Beh, potremmo lanciare un nuovo contest: invece di scrivere, tagliare un brano famoso il più possibile, senza sconvolgerne il senso. Vince chi lascia meno parole.
…purtroppo però i giudici già al secondo racconto, mi si stuferebbero di leggere la stessa trama. 😀
Però nell’eco tagliato, hai rovesciato un particolare (e in effetti quella frase mi ha fatto dannare): lui mostra il cellulare a lei, lei guarda e approva, ma è lui a infilarselo in tasca. 😉
Quando ieri su FB mi ha scritto se sentivo l’eco dell’eco, mi immaginavo invece Mr.Grey che mi suonava il campanello… 😀 😀 😀
Ahia. Me la cavicchio a sfrondare qua e là, ma a tagliare lasciando meno parole possibile so’ proprio negato. Quindi nel tuo ipotetico contest partirei decisamente svantaggiato.
Ho pensato a quel cellulare chiedendomi in quale tasca farlo finire, perché le foto servirebbero sia a lui per vantarsi che a lei per spedirle ai parenti. Alla fine l’ho messo nella tasca di lei.
Mister Grey e l’automobilista li ho tagliati perché quando l’eco si propaga, non si ripete mai per intero.
Spero sia chiaro …aro …aro.
E tu dirai: “Appunto, avresti dovuto riscrivere l’ultimo pezzo …ezzo …ezzo. Cioè l’automobilista …ista …ista.”
😀 😀 😀
L’ultimo era Grey…ey…ey…..hei!!! 😀
Azz! Hai ragione. Con tutti questi echi mi è scappata pure la gaffe.
L’Eco dell’eco dell’eco: tre incipit.
Il 16 giugno 2019 mi fu messo tra le mani un post dovuto alla penna di tale Marina Guarneri, L’eco #4, traduit en français d’après l’édition de Dom J. Mabillon (Aux Presses de l’Abbaye de la Source, Paris). Il post, corredato da indicazioni storiche invero assai povere, asseriva di riprodurre fedelmente un manoscritto del XX secolo, a sua volta trovato in un vecchio cassetto dalla stessa donna mentre spolverava, donna a cui tanto si deve per la passione della scrittura.
In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Questo era in principio presso Dio e compito dello scrittore fedele sarebbe ripetere ogni giorno con salmodiante umiltà l’unico immodificabile evento di cui si possa asserire l’incontrovertibile verità. Ma videmus nunc per speculum et in aenigmate e la verità, prima che faccia a faccia, si manifesta a tratti (ahi, quanto illeggibili) nell’errore del mondo, così che dobbiamo compitarne i fedeli segnacoli, anche là dove ci appaiono oscuri e quasi intessuti di una volontà del tutto intesa al costruire storie a volte zoppicanti.
Spesso mi rifugio in giardino a leggere e scrivere. Da quando è stato rifatto, anche se i lavori non sono ancora terminati, bagnare il prato nuovo è diventata un’attività molto rilassante, specie dopo una lunga e afosa giornata di lavoro e preghiera. Purtroppo però i turni stabiliti dall’Abate sono piuttosto rigidi: quando il terreno è in ombra, spuntano fuori zanzare talmente grosse e fastidiose che metterebbero a dura prova anche un santo. Allora mi ritiro nel mio primo luogo preferito di lettura: la panchina di legno in terrazzo dove, stranamente, le bestiacce non arrivano.
(P.S. Come direbbe Apple: “Prendere un testo e togliere più parole possibili: c’è un thriller, per questo”.)
Sei parole:
Mi rifugio in giardino a leggere. 😉
Uh, quanti echi. Se poi cominciano a interferire tra loro, ne vedremo delle belle… 😀
https://www.youtube.com/watch?v=aDRn26WRsRM
Tu che sfrondi e tosi, Darius, è un inedito interessante! 😛
In effetti, un’eco p’esse eco dovrebbe allungaaaare:
“Spesso pesso esso, mi rifugio fugio gio in giardino dino ino a leggere gere ere e scrivere vere ere… ”
Solo che finirebbe prima Pagni a recitare il tasso di Campanile che tu a riscrivere l’eco dell’eco dell’eco. (no, l’eco al cubo è di Scarparo. Voto il primo incipit. :D)
Ora che ho preso dimestichezza con la motosega, sfrondo e toso in un attimo. 😛
Non c’è un “primo” incipit. I tre incipit sono i tre livelli narrativi de “Il nome della rosa” (a parte l’ultimo, ovviamente).
Ah. Non avevo colto. Quindi l’eco dell’eco dell’Eco… 🙂
Okay,allora voto il primo livello. Non ho colto l’ Eco. 🙂