darius tred, estrattoSenza reazioni chimiche non potrebbe esistere la vita.
O sì?
Era un problema vecchio. Agli inizi del progetto Wildfire ci si era posti una domanda: come si fa a studiare una forma di vita completamente diversa da tutte quelle che si conoscono? Com’è possibile capire che si tratta di una forma di vita?
Non era una domanda accademica. La biologia, come aveva detto George Wald, era una scienza unica perché non poteva definire la sua materia di studio. Nessuno, infatti, sapeva che definizione dare alla vita. Nessuno, in realtà, sapeva che cosa fosse. Le definizioni di una volta – un organismo che mostrava ingestione, escrezione, metabolismo, riproduzione, eccetera – non valevano più. Era sempre possibile trovare delle eccezioni.
Il gruppo aveva finalmente concluso che il segno distintivo della vita era la conversione di energia. Tutti gli organismi viventi, in un modo o nell’altro, assorbivano energia – come il nutrimento, o la luce del sole – la trasformavano in un’altra forma di energia. (L’eccezione a questa regola erano i virus, ma il gruppo era pronto a rispondere che i virus non erano esseri viventi.)
Per la riunione successiva, s’invitò Leavitt a preparare una smentita della definizione. Quest’ultimo ci pensò una settimana e si presentò ai colleghi con tre oggetti: un pezzo di panno nero, un orologio e un blocco di granito. Li mise sul tavolo davanti al gruppo e disse: “Signori, eccovi tre esseri viventi.”
Sfidò poi la squadra a dimostrare che viventi non erano. Mise al sole il pezzo di panno nero: che, naturalmente, si scaldò. Ecco, annunciò Leavitt, un esempio di conversione di energia: di energia radiante in calore.
Gli obiettarono che quello era un puro e semplice assorbimento passivo di energia: non si poteva parlare di conversione. Poi aggiunsero che la conversione, se tale poteva essere chiamata, non era intenzionale. Non serviva a niente.
“Come fate a sapere che non è intenzionale?” aveva ribattuto Leavitt.
Presero poi in esame l’orologio. Leavitt indicò il quadrante radioattivo, che brillava nel buio. Era in atto un processo di decadimento, in virtù del quale si produceva la luce.
Gli obiettarono che si trattava semplicemente di una liberazione di energia potenziale mantenuta in livelli elettronici instabili. Ma la confusione era aumentata; Leavitt aveva validi argomenti.
Finalmente arrivarono al granito: “Questo è vivo,” disse Leavitt. “Vive, respira, cammina e parla. Solo che noi non possiamo vederlo, perché tutto questo accade troppo lentamente. La vita di una roccia dura tre miliardi di anni, la nostra solo sessanta o settanta. Non possiamo vedere quello che succede a questa roccia per la stessa ragione per cui non possiamo riconoscere il motivo di un disco suonato alla velocità di un giro ogni secolo. E la roccia, per parte sua, non s’accorge neppure della nostra esistenza, perché noi siamo vivi solo per un brevissimo istante della sua vita. Per lei, siamo come lampi nel buio.”
Leavitt alzò l’orologio.
La sua dimostrazione era abbastanza chiara, ed essi modificarono il proprio modo di pensare riguardo a un punto piuttosto importante. Era possibile, ammisero, non riuscire ad analizzare certe forme di vita. Era possibile non riuscire a fare il minimo progresso, il più piccolo passo avanti, in un’analisi del genere.

Tratto da Andromeda, di Michael Crichton

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