Tempo fa avevo scritto un post semiserio dal titolo piuttosto inequivocabile:
processo all’incipit. Il senso del mio pensiero era tutto sommato semplice e lo è tuttora: il lettore, a mio modo di vedere, tende a dare troppo peso all’incipit e si culla nell’illusione di qualificare efficacemente un romanzo leggendone solo i primi paragrafi. Insomma, si fida delle prime sensazioni.
A volte mi chiedo se la stessa cosa non accada con il finale.
Il finale che piace, il finale che non piace, il finale che non c’è.
Ogni finale abbandona ciascun lettore alle proprie sensazioni.
E se l’incipit ha la responsabilità di farci perdere una buona lettura trasmettendoci sensazioni sbagliate, il finale ha anch’esso la sua bella fetta di responsabilità: se ci delude contribuisce in modo forse decisivo a decretare la bocciatura dell’intera lettura.
E il finale aperto?
Ma come la mettiamo con il finale aperto? Il finale aperto, il finale che non c’è, lascia addosso quella sensazione di incompiuto. A volte può essere irritante, altre volte potrebbe essere un arrivederci, anche se più o meno gradito.
Personalmente ritengo che un finale aperto sia sempre meglio di un finale deludente.
Qualcuno (anzi: qualcuna 😀 ) sostiene che il finale aperto “salva chi scrive dal prendere la decisione più difficile di tutte”: quella appunto di scrivere un finale. È un’osservazione che è emersa nei commenti seguiti alla pubblicazione del mio ultimo racconto,
“Il rito incompiuto”.
Può darsi. Intendo dire: può darsi che chi legge rimanga con questa sensazione. Ma non sempre è così. Succede che a volte, pur avendo ben delineato un intreccio, occorra dosare la narrazione suddividendola in modi e anche tempi differenti. Il che non significa scrivere espressamente “prima parte”, “seconda parte” e così via.
Ma il fenomeno del finale aperto mi incuriosisce da un altro punto di vista. Parlare di finali aperti sottintende l’esistenza di finali “chiusi” o comunque di storie con finali ben definiti. Quello che mi chiedo è se davvero esistano storie con finali chiusi.
Sequel, prequel e spin-off
Una storia può avere un finale ben chiuso ma non sarà mai sigillato abbastanza per non essere riaperto. È in questo senso che mi chiedo se davvero esistano storie compiute e definitivamente concluse una volta per tutte. Chi scrive saghe lascia volutamente intrecci sviluppati a metà ma chi scrive storie compiute, pur avendo messo la parola “fine”, spesso trova il modo per riaprirle, così da scriverci un seguito. E come se non bastasse c’è sempre modo di scrivere un prequel. Senza contare gli spin-off, ovvero il racconto di vicende parallele alla narrazione principale.
Anche se sono termini (e inglesismi!) tipicamente cinematografici, la pratica ormai è diffusa anche in ambito narrativo, così diffusa che ogni storia, virtualmente, può essere considerata una storia infinita, anche se sarebbe più corretto parlare di universo narrativo.
Tuttavia,
come scrivevo tempo fa, trovare un certo equilibrio tra finali chiusi e finali aperti è un’arte che è bene imparare a destreggiare con maestria, anche perché ci sono storie che spesso premono per continuare.
Come se vivessero di vita propria.
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A me una certa ambiguità non dispiace. Voglio dire, secondo me non tutto tutto deve essere svelato o risolto, purché la storia non sembri monca. Penso anzi che l’ambiguità intorno ad alcune situazioni contribuisca al fascino di una storia. Però trovo che un finale poco soddisfacente lasci un’impressione persistente, tanto quanto un incipit sgradevole, anzi peggio. Ti rimane appiccicato addosso al punto da contagiare tutta la percezione del romanzo/racconto.
Quanto è vero poi che ci sono storie che vivono di vita propria!
Siamo in linea, direi. Diciamo che l’incipit sgradevole almeno ci permette di evitare la lettura, mentre il finale no: la lettura l’hai già ultimata. Quindi anche tu hai a che fare con storie che vivono di vita propria? 😉
Costantemente. Mi illudo sempre di essere io a guidare, finché capisco che non è così 😉
Bene. Abbiamo un punto in comune… 😉
Ciao Darius, io sono una di quelle che è rimasta spiazzata da quello che tu chiami finale aperto e che a mio avviso è piuttosto un finale incompiuto. In effetti anche a me non dispiace un finale aperto, basta intendersi sul significato. Per me aperto è un finale che offre una conclusione alla storia, ne chiarisce in qualche modo molti se non tutti gli aspetti in sospeso, ovvero quelli che reggono l’interesse per la narrazione da parte del lettore, e lasciano aperta una o più soluzioni. Ai sequel, alla fantasia del lettore, ecc. ecc.
Il finale incompiuto invece non risponde a questa esigenza che considero elementare. Il tuo raconto era, è molto bello e a mio avviso non aver dato risposte lo ha penalizzato. Come lettrice mi sono sentita abbandonata dal mio generatore di storie. Non farlo mai piu! 🙂
Accidenti! Davvero ci sei rimasta così male? 😀 . L’ho pubblicato il 31 ottobre, la serata di “dolcetto o scherzetto”… 😀 . Ok, non lo farò mai più…
…forse. 😉
A parte gli scherzi: saprò farmi perdonare, vedrai.
Che dire… Sono cresciuto a pane e Asimov, la qual cosa ha fatto di me un cultore del finale ad effetto; meglio se condito con un cliffanger, in caso si tratti di saghe.
Attento a dire che il lettore dà troppo peso all’incipit, King potrebbe risentirsi. Mi è giunta voce che la vecchiaia lo ha impermalito un filino. Se ti scatena addosso soltanto la metà dei suoi orrori ti tocca cambiare identità ed espatriare 😀
Spero allora che mister King non si legga il mio Processo semiserio all’incipit… 😀
Io a suo tempo lo lessi, ma il vecchio Re e io abbiamo opinioni molto differenti 😀
In genere, i finali aperti mi innervosiscono: io voglio che l’autore mi dica come finisce la storia, non voglio essere io a fantasticarci sopra, però faccio una distinzione tra “finali a precipizio” (o a caduta nel vuoto) e “finali vedo/non vedo”. Nel primo c’è una storia che corre verso qualcosa, l’autore costruisce una trama, crea delle aspettative, poi, all’improvviso, volti la pagina del libro e trovi un punto. Corri corri e non fai in tempo a frenare davanti al vuoto che hai davanti, ci cadi dentro e chi s’è visto s’è visto. Basta un’inconcludenza del genere per farmi dare un giudizio negativo a un libro che, forse, poteva essere bello.
Nel secondo tipo di finale, un finale s’intravede, solo che sei tu lettore a scegliere quale mettere in luce; l’autore non te lo dice, ma ti porta a un bivio, non chiude il discorso senza darti elementi validi per immaginare una conclusione. In un racconto di Carver, uno di quelli più “aggrediti” da Lish, c’è il figlio di una coppia che cade, sbatte la testa e finisce in ospedale, alle soglie del compleanno che non potrà più festeggiare. Nella versione di Carver il finale c’è, chiaro, raccontato, è lì; nella versione di Lish, il racconto finisce con una telefonata dall’ospedale. Non sai il motivo della chiamata: il ragazzo si è svegliato dal coma? Il ragazzo è morto? È il lettore che si dà una risposta.
Ecco, questo è il tipo di finale aperto che mi piace, perché mi fa rimanere dentro la storia ancora per il tempo che mi serve per meditarne la fine.
Il finale a precipizio! Grandioso!
Questo davvero mi mancava… 😀 😀 😀
Potrei specializzarmi in finali a precipizio… 😛
Infatti, con la tua storia ho scordato di indossare il paracadute. Disgraziato. ????????
Ok, mo’ me lo segno: la prossima storia devo concludersi con “e vissero felici e contenti”. 😀
DETESTO te lo metto pure in maiuscolo il finale aperto, ho scritto uno spin off senza che il precedente romanzo non fosse ben chiuso, anche perché non avevo proprio idea che avrei continuato.
Il tuo “DETESTO” ha un che di vagamente minatorio… 😀 😀 😀
@tutti gli utenti: vabbe’, ragazze, capisco che l’abbia fatta tutta fuori dalla tazza (quella corta e pure quella lunga)… 😀
… ma andiamoci leggeri, non ha mica ucciso nessuno, il povero Darius (almeno credo. Spero. Anche se il teschio tra le radici qualche dubbio me lo suscita)
Ma sì, ma sì, tranquilli! 😀 😀 😀
Uhm… chi era quella qualcuna?? 😀
Confermo che un finale deludente offusca completamente un romanzo, anche se fino a quel punto ci era sembrato brillante. Di uno in particolare non ho nemmeno capito il finale: Affari d’oro di Madeleine Wickham-Sophie Kinsella, romance estivo, e dal genere ti aspetti un certo tipo di finale, che termina in maniera confusa. Se l’autrice voleva dare una riflessione, non l’ho capita. Ma fino al penultimo capitolo, la scrittura e la trama erano brillanti. In quel caso se lasciava un finale -dichiaratamente- aperto, era meglio!
Ecco, forse dovremmo parlare di finali fintamente chiusi e finali dichiaratamente aperti.
Del resto nemmeno noi esseri umani siamo certi del nostro personale finale!
E si, ci sono storie che premono per continuare. Il racconto di Liam e Caitlyn era unico e conclusivo, per me. Ma le lettrici hanno iniziato con: “E adesso? Non può finire così!” “Ma lei è morta, cosa vuoi? Mica posso resuscitare i morti io!” “Ma non puoi lasciarli uno di qua e uno di là!” Insomma, alla fine ho dovuto riprendere la storia sotto minaccia…
Quindi, c’è da stare attenti sia ai finali aperti che ai finali chiusi! 😀
Eccoti, Qualcuna! 😀
Quindi, nel tuo caso specifico, pur “avendo preso la decisione più difficile” decidendo di scrivere il finale, non l’hai passata liscia: hai dovuto riaprire la storia. Hihihiii hiii… 😀
Pensa l’ironia della sorte… 😀 😀 😀